Venerdi
Sto camminando tra la stazione della ferrovia e l’ingresso dell’aereoporto della Malpensa.
Sono un po’ sovrappensiero ma una targa annegata nel pavimento mi strappa ai pensieri.
Recita una sola frase ma sembra esser fatta per me: la guardo bene e penso che davvero sia premonitrice: è un attimo, poi riprendo a camminare verso il terminal; devo prendere un aereo per New York dove domenica correrò la maratona!

Ora, si badi, fino a 365 giorni fa io non avevo mai corso un Km in vita mia ma parecchio tempo fa  feci due promesse a me stesso e una di queste era proprio quella che un giorno avrei corso la maratona di New York: ecco, quel giorno sarà domenica prossima.

Sabato
Per esser il giorno prima di correre di cose da fare ne ho fin troppe.
Prima di tutto sveglia all’albissima, poi trasferimento davanti al palazzo dell’ONU per una “sgambatella” di 5 km fino in Central Park; no… non una sgambatella così tra amici, nossignore, siamo in quindicimila e se passare tra i grattacieli così, tanto per corricchiare, fa questo effetto non oso immaginare cosa sarà domani.
Nel pomeriggio poi, lunga camminata per andare a ritirare il pettorale: l’organizzazione è perfetta e non faccio nemmeno un secondo di coda; poi quando hai in mano quel pezzo di carta plastificato.. beh… un certo effetto lo fa!
Nel pomeriggio resisto alla tentazione di fare il turista macinando km senza nemmeno accorgermene e vado allo Sheraton: è prevista una conferenza con Linus, e altri “espertoni” di maratona.
Non mi aspetto gran che e, forse per questo, ne esce una serata fantastica con 6 personaggi sul palco ognuno con una storia incredibile: tra tutti ricorderò sempre un giornalista (e corridore) che ci spiega passo passo tutto quello che succederà l’indomani.
Già a sentirlo viene una voglia matta ma solo qualche giorno più tardi mi accorgerò che davvero mi aveva spiegato tutto, senza sminuire e senza esagerare.
In serata contraddico tutti i miei principi e per la prima volta in vita mia vado a mangiare in un ristorante italiano a NY: pasta ovviamente. 
Ho scelto uno dei ristoranti più quotati (anche se a prezzi umani) e… beh diciamo che questa esperienza l’ho fatta e… chiudiamo qua il discorso.
Poi rientro in camera e via a nanna, anzi no! punto la sveglia e punto anche il servizio in camera: sveglia per le 5 e 55 che domani non è proprio il caso di arrivare in ritardo.

Domenica
Suona il telefono….si….si ho chiesto io la sveglia…. Grazie.
Metto giù. Apro gli occhi e guardo l’ora: 4 e 55
?
E che c… hanno sbagliato! Oggi c’è stato il cambio tra ora legale e ora solare; si però potevano starci un poco più attenti; e adesso chi riprende sonno?
Bighellono un poco, poi preparo tutto l’occorrente che poi “tutto” non è chi sia moltissimo.
Passaporto, 20 dollari, una carta di credito, telefono, le barrette energetiche, punto.
Indosso pantaloncini e pantaloni, metto la maglietta e una felpa e mi assale il dubbio se la maglietta per correre debba essere a maniche lunghe o corte… mah.

Scendo e faccio la più cara colazione che abbia mai fatto: una spremuta, un caffe, due toast con la marmellata e un altro paio di vasettini di marmellata monouso me li porto via… il tutto per soli 40$
Un affarone.
In compenso una signora molto più esperta del sottoscritto mi consiglia senza indugio la maglietta maniche corte: e così sia.

Alle 7,00 un manipolo di individui esce nella brezza del mattino: qualcuno è in grande compagnia, qualcuno a coppie, qualcuno in solitaria: tutti con poca voglia di chiacchierare. Saliamo sul pullman che percorrerà tutta Manhattan verso sud costeggiando l’East river fino ad arrivare all’imbarco dei traghetti.
Si entra nel terminal e si sta tutti insieme un po’ ammassati salendo “a caso” sul primo traghetto che arriva e visto che fanno la spola ogni 15 minuti non si aspetta poi molto: 500 persone a traghetto ininterrottamente senza nessuno che chieda il biglietto ne un documento ma in compenso con lance armate a scortare tutti i traghetti il che smorza un poco il senso di eccitazione e di turismo che ti starebbe prendendo mentre lasci Manhattan passando vicino alla statua della Libertà.
Una volta arrivati in un lungo serpentone di persone vieni condotto sul ciglio di una strada dove una fila interminabili di soldati messi sul marciapiede blocca la folla.
In strada 10 pullman uno dietro l’altro.
Aprono tutti all’unisono le portiere, il soldato davanti alla porta del bus si scansa e conta la gente che sale fino a riempire il pullman; quando raggiunge il numero giusto si rimette in posizione e chiude il passaggio; poi i pullman ripartono tutti insieme ed altri 10 riprendono il loro posto.
Sono pulmann di ogni tipo: da vecchi scassoni anni 60 a fiammanti pulman a doppio livello, dagli stereotipati scuolabus gialli ai classici bus turistici: tutto superorganizzato e tutti, con un giro di 20 minuti per stradine cosparse di classiche villette con la bandiera statunitense nel piccolo giardinetto frontestante, ti portano all’ingresso del “parco chiuso” che poi non è altro che un territorio federale sottoposto a leggi speciali e, di conseguenza, circondato da soldati (dentro) e poliziotti (fuori) che ti fanno il primo ed unico controllo manuale e con metal detector.

Li, per la prima volta, poco fuori, osservo la prima famigliola composta da mamma e quattro bimbi in attesa dell’arrivo del “loro” eroe: un cartello fatto a mano con scritto “go daddy go” spiega tutto. 


Il parco chiuso è diviso in tre parti: ogni parte è identica all’altra e colorata di verde, blu e arancione
La mia parte (verde) è quella più lontana (ei più vicino alla partenza) e quindi per arrivarci devo attraversare le altre due il che non è banale perché c’è una marea di gente che va ovunque.
In ogni parco ci sono i camioncini delle poste, per chi ha optato di farsi “spedire” fino al traguardo gli indumenti che si toglierà all’ultimo secondo, ci sono i grandi cassoni di raccolta per i senza tetto, per chi come me ha optato per regalare gli indumenti che si toglierà all’ultimo, ci sono una serie di tende dove puoi avere the caldo, caffe, Gatorade, acqua, etc…etc…, c’è l’angolo della “dog terapy” per chi è stressato, una fila interminabile di bagni chimici, anche perché se ti beccano a farla fuori ti strappano il pettorale, e un grande schermo che riprende la corsa dei “Pro” e ti fornisce informazioni su chi deve avvicinarsi ai cancelli di partenza.
Alla fine non manca molto: un’ora giusta.
Io decido per il bagno, mangio le due marmellate e anche un paio di barrette pre-corsa; non mi faccio mancare i cagnoloni (non sono stressato ma sono bellissimi) e mi sdraio davanti al cartellone. 
I Pro sono già partiti e chiamano la prima “wave”, mando qualche sms, sistemo l’orologio e il telefono e mi godo il sole caldo sdraiato quando sento un “Bang” seguito da un urlo liberatorio: mi giro sulla mia destra e vedo una fiumana di persone cominciare a correre su Verrazzano… la prima wave è partita; chiamano la seconda.

Ok, direi che ora ci si deve muovere.
Torno a fare la fila del bagno per l’ultima volta, mi spoglio e getto la tuta e il kway nel cassonetto proprio mentre parte la seconda wave e chiamano la terza… la mia.
Passo sotto i pilastri del ponte e cerco un “pacer” delle 4 ore per cercare di stargli attaccato ma proprio non riesco a trovarlo; allora ci rinuncio ed entro nel mio cancello (ce ne sono una decina).
Tra la “chiamata” e lo “start” passano 30 minuti; i primi 10 li ho già passati; i secondi 10 servono per riempire i cancelli e incamminare tutti alla base del ponte dove una doppia fila di soldati/poliziotti armi spianate con camioncini dell’esercito e pattuglie a lampeggianti accesi controlla che nessun autotreno decida di prendere il ponte facendo uno strike colossale.
A questo si aggiunga una musica ritmata sparata a tutto volume e una tensione crescente che comincia a farsi sentire: il risultato è un mix di stato d’animo difficilmente descrivibile se non con un “ma cosa cavolo sto facendo?”
Arrivati alla base del ponte lo si imbocca per un centinaio di metri e piano piano ci si ferma davanti ad un archetto posto su ambo i lati con una parola stampigliata sopra che è assolutamente autoesplicativa: “start”
Solo allora ti rendi davvero conto.

Silenzio. 
Assoluto silenzio.
Facendo due calcoli banali ci sono circa 15.000 persone qui e ora.
Eppure c’è silenzio.
Sulla linea di partenza si alternano varie personalità che ascolto poco ma di fatto ringraziano un po’ tutti: il comune di New York, la polizia e i servizi in genere, i volontari e millanta persone che non ascolto o non capisco.
Ad un certo punto si chiede un grande applauso per la moltitudine di persone arrivata da oltreoceano e poi per la moltitudine di persone che si appresta a correre la prima maratona e infine per tutti noi perché, chi in un modo e chi in un altro, ognuno si è fatto un mazzo così solo a pensare di esser qui oggi: penso che tutti e tre gli applausi erano anche per me.
Torna il silenzio.
Cambia la persona al microfono e  chiede di abbracciare il proprio vicino augurandogli il meglio: lo faccio, di cuore.
Silenzio.

Cambia di nuovo la persona al microfono e parte l’inno americano.
Questa volta ne segue un applauso.
Poi cambia di nuovo la persona ma questa volta ad accoglierlo è un brusio.
C’è tensione, anche se nessuno parla la si percepisce e un secondo dopo capisco anche io.
Al microfono si presenta il presidente della NYRR, l’ente organizzatore, “Ok ladies and gentlemen; it’s your time…just one minute!”
Silenzio.
Assoluto.

Mi guardo intorno…
Silenzio…. (segue)

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